Il beneficio della frustrazione

“Prendete il migliore studente della classe, quello che fa sempre bene: verifiche e interrogazioni perfette. Chiamatelo alla cattedra e, dopo qualche domanda di quelle senza scampo, come solo chi insegna sa fare, appioppategli un bel 4. A lui o lei avrete fatto il più bel regalo e, magari, col tempo e un po’ di saggezza, potrà pure esservi grato.”.

Questo mi capita di condividere con insegnanti e professori che, tra lo sbigottito e il divertito, sono malcapitati a qualche mia formazione.

Al di là della boutade, di cui ogni sana formazione si deve nutrire, la provocazione non è affatto gratuita.

Così come il supporto al soggetto in difficoltà (dai disturbi dell’apprendimento, alle forme più ostacolanti di deficit), passa anche per un’adeguata stimolazione della sua autostima e “volontà di fare”, incentivata da una attribuzione del voto approssimato per eccesso (benzina rinforzante e sedante le tante frustrazioni che spesso è costretto a subire); allo stesso modo per il soggetto superperformante si rivela un autentico toccasana una buona dose di frustrazione, magari accompagnata da un po’ di senso di ingiustizia.

Il rischio più acuto delle relazioni educative contemporanee è, infatti, quello di occuparsi dell'Altro vedendone solo il bisogno di benessere e non la necessità dell'inciampo: prevenendo ogni presunto rischio, facendo per lui affinché non fatichi, soffrendo affinché non soffra, a volte cadendo al suo posto.

Insomma, l'aver cura in cui, come direbbe Heidegger, ci si «sostituisce dominando», fino al punto da impedire quelle sane esperienze, pur negative, che sono imprescindibili alla crescita e non solo ci aiutano ad affrontarla ma, soprattutto, ci fanno capire che "siamo capaci" e ci mettono nella condizione di non ritrarci -domani- di fronte alla prima salita, tanto insicuri da paralizzarci.

Tra i vari casi che affrontiamo nel centro LogoPaideia, sono, infatti, tutt'altro che rari quelli segnati non da un deficit organico, ma da un deficit esperienziale: una fragilità dettata da un livello di protezione tale da impedire al soggetto di capire chi è, cosa vuole, di cosa veramente è capace.

Come Giulio, un timido adolescente, pieno di paure, di ansie, di fragilità, che non aveva amici e non usciva mai di casa, che a scuola se ne stava sempre in disparte, spaventato anche dalla sua ombra e che un giorno, con una di quelle piroette che rimangono marchiate a fuoco nella memoria di ogni terapeuta, mi racconta del prezioso mobile ereditato dalla nonna, antico e bellissimo, ma di cui ignorava la foggia perché, appena giunto nella sua casa, era stato coperto da un mollettone di panno che certo lo proteggeva, impedendo che venisse graffiato, che corresse il rischio di essere rovinato, ma pure -al contempo- lo occultava, censurando la sua bellezza agli occhi del mondo.

Giulio che aveva anche combattuto per non diventare come quel prezioso mobile ma, fino ad allora, non ce l'aveva fatta e aveva dovuto "inventarsi" una serie di sintomi preoccupanti (autolesionismo, attacchi di panico, etc) affinché papà e mamma -premurosi- lo portassero da me, per sentirsi dire che non era Giulio il "problema".

La vita, quando non corre il rischio di essere graffiata, ammaccata, nei casi migliori, si ribella e manifesta la sua voglia di essere viva con sintomi più o meno appariscenti, metaforiche grida in cui l'anima chiede aiuto. Altre volte, purtroppo, non c'è la fa e un urlo, tutto interiore, devasta silenzioso.

Un antico motto cinese recita: "Insegna a tuo figlio a usare la spada, ma non combattere mai per lui", perché, inevitabilmente, la vita arriva, prima o poi irrompe con i suoi sfregi, con i sui graffi, con le sue ferite, ed è allora che, se mai abbiamo frequentato la ferita, se non ci siamo allenati alla frustrazione, anche il più piccolo graffio può diventare lacerante.

In una società, come quella attuale, così accanitamente impegnata a svuotare da ogni suo significato il valore educativo e evolutivo della frustrazione, spronandoci ad inseguire una fallace e tragica felicità aeternam che trova, proprio nel tentativo di occultamento d’ogni ferita (dell’età, del conflitto, della sconfitta, della rinuncia, del sacrificio, della fatica, del dolore, della malattia, della morte), il più eclatante e -ahìnoi- dilagante monumento, assume un aspetto determinante non sottrarsi alla ferita e al necessario percorso di cicatrizzazione che richiede.

Ogni cicatrice, memoria di ferita ci offre la straordinaria possibilità di fermarci per riconoscerci, per conoscerci nuovamente. La ferita ci trasforma, ci conduce ad altra forma.

Ogni ferita/cicatrice è possibilità di riscatto che, mentre iscrive sulla pergamena dell’anima la nostra personale fatica, racconta anche la gioia rigeneratrice della vita e la sua capacità di suturare il dolore; anche se non lo scorda e, forse, non lo deve scordare -e proprio per questo emerge: piccolo rilievo sul liscio della pelle.

La ferita, cicatrizzandosi, fa lievitare la memoria, si sporge nel futuro venendo a patti col passato. “Solve et coagula” dicevano gli alchimisti: si rompono gli elementi di una forma originaria (solve) e si riuniscono (coagula) in nuova forma, il metallo si fa oro o, addirittura, pietra filosofale.

Ma, affinché ciò avvenga, si deve attraversare la ferita, per vedere oltre, per fare entrare una luce che prima non c’era; come ci insegna Lucio Fontana con i suoi tagli sull'imperturbabile superficie del quadro. E certo, si piange per le ferite che la vita ci procura, perché, come scrive Pier Paolo Pasolini in una delle sue più splendide poesie: “[…] Piange ciò che ha fine e ricomincia…” e poi, poco più avanti: “[…] Piange ciò che muta, anche per farsi migliore.”.

Anche per farsi migliore...




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