Il caffè dei papà 4 - Per fare il papà bisogna andare a scuola?


Lungo una passeggiata al parco un papà mi ha raccontato di suo figlio di cinque anni che gli ha chiesto se per fare il papà bisogna andare a scuola.

Alla domanda del bambino, fatta così a bruciapelo la risposta di questo signore quarantenne è stata, per quanto divertita, evasiva ed anche un po’ imbarazzata.

Abbiamo riso insieme del simpatico episodio che però ha aperto un varco sul versante di una riflessione intorno alla questione di che cosa si impara e si può imparare facendo il padre. 

Personalmente parto del presupposto che ogni relazione è anche una storia di formazione nel senso più ampio e nobile e che dovremmo imparare a leggere le nostre relazioni anche in questo senso, cogliere in esse quella dimensione trasformativa che, comunque sia e comunque vada, amplia e moltiplica la nostra conoscenza. 

Mi viene quindi naturale interrogarmi sulla natura formativa della dimensione paterna e su quanto questa relazione costruisce e può costruire in termini di Saperi. Come si diventa padre e cosa si impara facendo i padri? Cosa si può scoprire e quali nuove domande possono emergere nell’esperienza paterna? Come ci si trasforma lungo il divenire di questa esperienza? 

Queste domande e le possibili risposte non sono così scontate e inutili e se ne parla molto al caffè dei papà, interrogandosi magari intorno alla sensazione di essere o meno dei buoni padri o ragionando sulla necessità di una presenza maggiore o diversa nelle relazioni familiari. 

Le questioni sono molte e veramente molto quotidiane, legate ad esperienze molto concrete e ad emozioni forti e potenti. Questa scarsa presenza del padre nelle teorizzazioni sullo sviluppo infantile che spesso ci tratteggia proprio nell’eventualità della nostra assenza, del nostro pallore. 

Abbiamo riso molto una sera chiacchierando dei “padri pallidi” così denominati da alcuni perché poco definiti nella loro funzione educativa. E abbiamo sorriso di gusto quando qualcuno si è accorto che per parlare di noi – e quindi per farci esistere - c’è bisogno della nostra assenza. 

Noi non sappiamo cosa resta del padre, come si chiede un noto e sagace psicoanalista, ma sentiamo che qualsiasi cosa sia quello che resta, necessita di essere guardato, accolto, ascoltato soprattutto da noi padri che sentiamo tutta la necessità di comprendere un processo di trasformazione che non sta semplicemente nella nostra sfera privata ma che pervade la nostra contemporaneità. Non si tratta di auto-teorizzarci ma di trovare nuovi modi di immaginarci e raccontarci alla luce di nuove prospettive che possiamo inventarci, condividere e apprendere. 

Possiamo piegarci sulle ginocchia fino a far coincidere il nostro sguardo con quello dei nostri figli per re-imparare un altro modo di vedere il mondo senza dimenticare il nostro sguardo. Riscoprirci figli dei nostri padri e ascoltare le emozioni ma anche le mancanze, i desideri che avremmo voluto esaudire, le gioie ma anche le delusioni e le aspettative disattese. 

Non abbiamo mai sentito parlare di “istinto paterno”, mentre quello materno sembra quasi provato scientificamente e forse non esiste davvero un istinto paterno, o meglio è un istinto che va cercato, sperimentato, costruito. Forse si costruisce giorno dopo giorno imparando i gesti della cura, le parole nuove che possono arricchire il vocabolario del papà. 

Si scopre, l’istinto paterno, dentro un modo diverso di ascoltare le nostre emozioni e raccontarle, dirle cercando un nuovo ed originale modo di esprimerle. L’istinto paterno risiede nelle pieghe delle possibili esplorazioni che possiamo offrire ai nostri figli con tutta la ricchezza degli sguardi nuovi coi quali si può guardare al mondo. 

La ricerca dell’istinto paterno si presenta come un avventuroso e interessantissimo viaggio di conoscenza che ci conduce all’attraversamento di tante dimensioni della nostra esperienza e non ultima di quella della dimensione del maschile che può misurarsi attraverso questa ricerca con altri modi di pensarsi e di viversi come maschi senza trasformarsi in succedanei materni o dir si voglia, mammi. 

Mi rendo conto che quello che si delinea nelle chiacchierate tra noi papà è un papà postmoderno, che si configura non più su quelle definizioni scientifiche tradizionali ma che va oltre quelle definizioni e si pensa dentro altre concettualizzazioni. 

Un papà postmoderno che va scorto dentro una riflessione anche sul piano etico che mette al centro la necessità vitale del rispetto delle diversità e delle differenze diffidando di quelle certezze scientifiche che sfociano in determinismi e dogmi fin troppo abusati. 
Un papà che vuole cominciare a determinarsi, a leggersi a scoprirsi e che restituisce a questo processo di conoscenza una dignità al pari di quella cosiddetta scientifica. 
Un papà quindi che accetta la sfida di una collocazione della propria figura dentro un quadro critico che rende possibili e credibili nuove prospettive di cambiamento. 

Ma allora questo papà postmoderno dove deve andare a scuola? Cosa deve imparare? Quale percorso dovrà compiere? 

La domanda del bambino di cinque anni probabilmente non voleva smuovere così tanti livelli di riflessione, eppure, credo che in quella domanda vi fosse la seria intenzione di interrogare una complessità densa di questioni che oggi risuonano dentro la relazioni tra padri e figli e che vanno accolte e ascoltate. 

Non si tratta di pensare ad una scuola, ad una patente del buon papà o ad altre amene iniziative di configurazioni di buoni papà, si tratta piuttosto di pensarsi dentro un processo di formazione e di crescita insieme ai nostri figli, alle loro mamme e alle nostre compagne. Si aprono nuove dimensioni di paternità e di genitorialità che certo ci disorientano, pensiamo alle famiglie omogenitoriali, ma che rappresentano una grande occasione per entrare in contatto con le differenze e con la possibilità di immaginare nuove relazioni e nuovi modi di crescere ed evolvere. 

Al caffè dei papà si parla anche di questo attraverso le storie, la condivisione dei dubbi, la voglia di capire insieme le cose che ci accadono, ma anche attraverso l’umorismo, i racconti teneri e divertenti dei nostri figli e tanta e salutare autoironia.

Michele Stasi

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